Liberaimago

CELESTE

  • testo e regia Fabio Pisano
  • con Francesca Borriero, Roberto Ingenito, Daniele Marino
  • suggestioni sonore live Francesco Santagata
  • assistente alla regia Francesco Luongo
  • costumi Rosario Martone
  • disegno luci Paco Summonte

primo premio al IV Festival delle Due Sicilie – “International Journalism & Arts Award Gino Votano primo premio al Festival della Resistenza nel 2021, Museo dei Fratelli Cervi di Reggio Emilia

Nel 1925 a Roma, nel Ghetto ebraico, nacque da Settimio ed Ersilia, Celeste di Porto. Non si sa molto di lei, ma alle cronache, su qualche articolo di giornale, qualche ancor non troppo logora memoria tira fuori questa vecchia, impolverata, ma spietata storia. La storia della “pantera nera”. Di quella bellissima e fatale ragazzina di diciotto anni che, dopo il rastrellamento del ghetto romano ad opera dei tedeschi guidati da Kappler, decide di diventare una delatrice. Di vendere gli ebrei. I suoi correligionari. Inizia così un vero e proprio periodo buio per gli ebrei del ghetto; coloro che venivano “salutati” con un cenno della mano da colei che era riconosciuta come una delle più belle ragazze di Roma, non avevano scampo. Per ogni “capo”, lei guadagnava cinquemila lire. E non importa se a finire nelle mani delle camicie nere fossero donne, bambini o uomini. No. La “pantera nera” era indifferente al genere, alle età. Solo la sua famiglia doveva essere risparmiata. Ma il padre non riuscì a portare questo enorme peso sulla coscienza, e si consegnò alle SS. I fratelli, tra cui Angelo, tanto amato, la rinnegarono. Solo la madre continuò a volerle bene.«La storia di Celeste di Porto – scrive Fabio Pisano – […] rappresenta un unicum, una sfaccettatura totalmente differente dai canonici punti di vista da cui si racconta questo triste avvenimento storico. Celeste […] evidentemente subì lo scatto del classico “istinto di sopravvivenza” che la spinse a commettere atti orribili contro la sua gente. Spietata, sì, e questo spettacolo non ha alcuna pretesa di assolverla, ma di narrare. Di raccontare ciò che lei fece, sforzandosi di immaginare anche il perché, o inventarlo. Perché alcune storie non lasciano traccia, se non una scritta nel muro di una cella carceraria. Una scritta incisa con un chiodo. E con tutta la rabbia di chi non sa. L’inconsapevolezza di chi è allo scuro di tutto. Ebbene, facendo luce in modo coerente, […] ci si pone l’obiettivo di un racconto. Di una narrazione che va, esile, ad infilarsi nell’enorme, smisurato, archivio di un periodo storico che verrà ricordato come un periodo malato».